Reinserire gli esclusi
L’esclusione è l’atto con cui “si lascia fuori”, non si permette ad altri di entrare. L’immagine sottesa è quella di una casa o di un accampamento di cui si sbarrano le porte per la decisione di non voler fare spazio, dare ospitalità, accettare qualcun altro. E’ sinonimo di emarginazione, che richiama ancora una linea di demarcazione, di confine fuori dalla quale si fa stare qualcuno.
A livello sociale il fenomeno dell’esclusione è stato a lungo pensato come dato naturale,
dovuto alla convergenza di una serie di fattori, quali la povertà, la mancanza di istruzione, la malattia mentale, davanti ai quali c’era solo la possibilità della “carità”. Troppo radicati nella condizione umana da credere di non poter effettivamente affrontarli in modo strutturale e senza la preoccupazione quindi di una ricerca di cause e responsabilità.
Oggi molti pensano invece che i fenomeni che producono qualunque forma di esclusione sono fatti sociali analizzabili che hanno cause precise e responsabilità politiche e culturali. L’emarginazione ha cessato di essere un dato della natura per essere interpretata come un fatto prodotto e provocato tanto da affermare che in realtà non ci sono poveri, ma impoveriti.
Eppure questa coscienza dell’emarginazione come risultato delle scelte e dell’attività degli uomini verso altri uomini, di popoli verso altri popoli, non ha portato ad una riduzione del fenomeno, ma ad una sua crescita.
Oggi sappiamo che accanto alle povertà tradizionali, che sono ben lontane dallo scomparire, come la povertà economica, culturale, le devianze, l’abbandono, il rifiuto sociale, la solitudine, ecc., se ne sono affiancate altre nuove legate ad esempio alla immigrazione, all’affacciarsi sempre più consistente dei paesi del Terzo mondo, al moltiplicarsi di fattori ambientali distruttivi come alluvioni, eruzioni, terremoti, all’impoverimento spirituale e di senso provocato dalla impossibilità di futuro e di speranza, alla precarietà del lavoro tanto quanto dei rapporti umani che si manifesta in un numero crescente di separazioni e altre povertà si affacciano all’orizzonte: sono le povertà provocate dal venir meno dello Stato sociale e quelle dovute allo sfruttamento indebito e irresponsabile dell’ambiente che minaccia il clima, le riserve di acqua, l’inquinamento dell’aria.
Tutto questo interpella la coscienza cristiana. E senza via di scampo se si vuole mantenere reale e significativo il riferimento all’evangelo.
Qui sta la radice e la condizione per dar vita e impulso al movimento contrario che dall’esclusione conduca all’inclusione.
Eppure proprio questo è un primo nodo da affrontare: la difficoltà di molti cristiani e di comunità a vedere nella cura dell’altro e nell’attenzione ai suoi bisogni la forma della propria fede. Credere in Gesù Cristo è infatti assumere la sua visione delle cose, i suoi criteri di valutazione e soprattutto la sua prassi di vicinanza e misericordia. Noi siamo passati da un atteggiamento di assistenzialismo ad un atteggiamento di solidarietà. Ora bisogna fare un passo in avanti: diventare capaci di condivisione.
La condivisione non mette l’accento sulle cose, ma sulle relazioni, non sull’esteriorità, ma sulla profondità e sulla risonanza interiore. La condivisione non ci mette di fronte a bisognosi, a poveri, a stranieri, ma a persone, a soggetti, a uomini e donne con volti concreti: volti dei senza casa, volti di anziani, volti di carcerati, volti di prostitute, volti di ammalati, volti di portatori di handicap, volti di alcolizzati, volti dei senza lavoro, volti della diversità, qualunque diversità, che chiedono cittadinanza, dignità, amicizia accogliente.
Qualcuno ha detto che dobbiamo saperci indignare di fronte alle ingiustizie delle persone e dei sistemi su altre persone e su nazioni intere.
La verità a volte occultata e taciuta è quella amara che se esiste l’emarginazione e l’esclusione è perché esiste chi emargina e chi esclude. Esiste chi per cultura o per lo più per interesse personale, di gruppo, di Stato mette in atto pratiche escludenti ed emarginanti. Per salvare i propri prodotti, standard di vita, guadagno abbondante, egemonia di mercato si è per lo più disposti a tutto: a derubare, a impoverire, a sfruttare, magari sotto forma di aiuti ai paesi in via di sviluppo, prestiti a governi corrotti, commercio di armi. La capacità escludente si trova in ogni ambito. In quello sociale si presenta come rifiuto da parete di gruppi sociali di integrare stranieri, minoranze, donne. Bambini non voluti nelle scuole, immigrati non voluti nelle case che piuttosto rimangono vuote, discriminazioni razziali e sessuali sul lavoro, ghettizzazione nelle periferie.
In quello economico con l’aumento sempre più consistente di fasce a rischio, la difficoltà di ottenere diritto di cittadinanza, ricongiungimenti familiari, stabilità di lavoro.
In quello politico con il restringimento della partecipazione democratica e popolare nelle questioni e negli affari che coinvolgono una intera nazione.
E anche in ambito religioso i fondamentalismi di ogni specie e genere, gli atteggiamenti moralistici che giudicano e condannano, la tentazione di una chiesa fatta di perfetti, di convinti, di praticanti.
Ma dietro a questi meccanismi di esclusione esistono cause più profonde.
Il nostro mondo è pervaso da una non del tutto cosciente e percepita cultura di morte, che è uno degli aspetti inquietanti della contraddittorietà della nostra cultura, dove tutto è radicalizzato. Si va dall’accanimento terapeutico per allungare la vita di qualche giorno, alla eliminazione di feti, di vecchi e di soldati nelle guerre. La ripresa della violenza nella forma del terrorismo o delle varie delinquenze ne sono una ulteriore prova.
Accanto alla cultura di morte si devono contare le strutture di peccato, cioè quei sistemi oppressivi, offensivi e deleteri di relazioni a livello globale che creano il fenomeno aberrante di un pianeta i cui abitanti nella maggior parte patiscono la fame, muoiono giovani, vivono sotto dittature, sono sfruttati e impoveriti, non sanno leggere. E sono miliardi! E tutto questo oggi viene giustificato e razionalizzato da una teoria che si sta facendo velocemente strada: se una volta i poveri erano una massa da riscattare ed aiutare perché la loro presenza minacciava lo sviluppo e costituiva un peso per la società avanzata, per cui gli stati hanno attivato politiche sociali di sostegno e le chiese opere assistenziali, oggi i poveri non servono allo sviluppo, se ne può fare a meno, si possono lasciare al loro destino, non sono più un peso, sono semplicemente inutili, una eccedenza ininfluente. Così si
smantellano gli stati sociali e si lascia che chi riesce viva, chi non riesce sia sacrificato. Più nessuna garanzia sociale, più nessuna tutela delle fasce deboli: ognuno pensa a sé stesso: ecco la filosofia vincente!
Ma se apriamo il vangelo noi incontriamo una parola e una pratica di Gesù di segno e indirizzo opposto. L’atteggiamento di Gesù, nel quale si rivela il volto del Padre è fatto di attenzione, di vicinanza, di misericordia, di condivisione, di perdono, di amore. Gesù si è avvicinato all’uomo, ha curato le sue ferite, ha incontrato i peccatori, i bambini, le vedove, i lebbrosi, gli ammalati, i non praticanti, i lontani e i pagani. Gesù ha dato da mangiare alle folle, ha nutrito con la parola coscienze e menti, ha rialzato, ha sostenuto, ha benedetto. Ha disobbedito alla legge per obbedire alla verità della sua umanità e divinità: l’unica verità è stato il suo amore.
Il gesto con cui nei secoli è ricordato dai cristiani è il dono della sua stessa esistenza, ricevuta con gratitudine dai discepoli perché diventi a sua volta il gesto che marchia i discepoli stessi: questo è il mio corpo dato per voi, questo è il mio sangue versato per voi.
A partire da questo i cristiani e la comunità dei cristiani hanno motivi sufficienti per verificare le loro posizioni e per impostare una adeguata azione.
Oggi siamo chiamati nuovamente a non conformarci alla mentalità di questo mondo, ma a trasformarla e a rinnovarla con la forza del vangelo, attuando una conversione spirituale che si manifesta nella capacità di incarnazione, di condivisione, senza paura di scegliere di stare dalla parte dei poveri. S. Paolo ci ricorda continuamente che non dobbiamo piacere a nessuno, ottenere i favori di nessuno ma ricercare solo quello che è gradito a Dio. E altrove richiama all’esigenza di non avere tra di noi e con gli altri altro debito che non sia l’amore.
La premessa al cammino di una rinnovata spiritualità della comunione e della pace consiste innanzitutto nel guardarci di essere o diventare noi stessi persone e chiese escludenti tradendo così l’originaria vocazione a formare una casa dalle porte aperte dove chiunque lo desidera possa trovare riposo, ascolto, aiuto, accoglienza, nella forma della gratuità.
La conversione spirituale ci porta poi anche a unificare sempre più la nostra vita, superando l’artificiosa distinzione tra fede e esistenza, preghiere e opere, perché in tutto quello che facciamo non abbiamo altro scopo che manifestare il volto paterno di Dio.
Così come in quanto credenti abbiamo il compito di presentarci con le caratteristiche del samaritano della parabola: attento e capace di vedere chi si trova sul proprio cammino; più obbediente alla sua umanità che lo fa fermare e commuovere davanti al malcapitato della storia piuttosto che frettoloso di pensare ai suoi affari e al suo interesse; pronto alla condivisione del suo tempo e del suo denaro; preoccupato di lasciarlo in buone mani per il ristabilimento completo della sua situazione e infine previdente sulle future possibili necessità di colui del quale si è liberamente fatto prossimo.
Una autentica spiritualità non produce chiusure, autocompiacimento, esclusivismi, ma mette in condizione di creare reti di collaborazioni in ogni direzione e con chiunque intenda farsi responsabile del cammino comune.
“Questa spiritualità supera quello spiritualismo, talora presente nelle comunità cristiane, che ritiene di poter coniugare la fede con il disinteresse per il prossimo e in particolare verso i problemi dei poveri; supera l’ottica di una carità spesso emotiva, che si esaurisce nell’intervento immediato, pur necessario ed apprezzabile, non preoccupandosi di conoscere e rimuovere le cause della povertà” (Lo riconobbero nello spezzare il pane, EDB, Bologna, 1995, n.22).
E’ certamente più facile, più sbrigativo, più conveniente, più redditizio escludere, perseguire la propria salvezza e il proprio benessere senza o addirittura contro gli altri, come è più comodo giustificare pratiche egoistiche piuttosto che cercare strade e formule nuove, riconoscere e assumere le proprie responsabilità e i propri errori, ristrutturare il nostro mondo per fare spazio agli altri.
Eppure se solo guardiamo al futuro immediato il mondo occidentale non può illudersi di farla franca chiudendo gli occhi e attivando la politica dello struzzo, non può ingannarsi nel credere di continuare ad essere l’unico fruitore dei beni della terra con esclusione della maggioranza. Prima o poi dovremo fare i conti con le nostre miopie, con i nostri egoismi, con le nostre esclusioni. E ancor di più, se in quanto credenti guardiamo al futuro lontano, quel futuro ultimo dell’incontro con Dio, siamo già stati avvisati che una sola cosa resterà: l’acqua, il pane, il vestito, la presenza divenuti dono.
Don Giovanni Perini